Anno nuovo, vecchia favola




Care amici lettori, vi scrivo dal mio pertugio di via Casalofio, cioè da quella parte di Italia che le giornaliste educatamente chiamano periferia per non dire recesso, che onestamente è una  brutta parola. Purnondimeno con il nuovo anno ci hanno promesso un ponte sullo stretto di Messina o, almeno un nuovo progetto di ponte, che dal 1866 è il più costoso passatempo italiano. Ma ogni favola ci ha il suo perché, così anche il mio periferico sottoscala da cui sogno il mondo.


Care amichi, per questo novello anno che si annuncia ricco di buoni propositi e di vecchie réclame mi piacerebbe raccontarvi una vera favola augurale lasciandoci alle spalle l’anno appena passato. Onestamente il 22 ha stato per il mondo un anno difficile da dimenticare e assai frizzante: di botti e fiammate sulla carne della gente ucraina, di corde al collo delle donne e dei ragazzi iraniani, dell’addio a una super regina, di pallonate mondiali in bellissimi stadi fra i fantasmi di migliaia di operai morti per cause naturali, di valigie di pìccioli per l’Europa per convincerci che il Qatar è uno stato all’avanguardia dei diritti umani. In Italia, francamente, è stato un anno un  po’ più sgasato come il Lambrusco che Berlusconi ci ha mandato a Putin o come gli arzigogoli del nuovo governo per scoraggiare i salvataggi in mare delle navi umanitarie, quelle che ci inondano di carichi residui su cui piangono le femminucce della sinistra (ma per fortuna in Italia il Presidente del Consiglio è maschio anche quando si chiama Giorgia). Certo nella penisola, isole comprese, ci abbiamo avuto problemi di subdolo disossamento idro-geologico, ma ormai siamo sulla buona strada e visto che copriamo 2 metri quadrati al secondo di terra col cemento presto saremo tutti saldamente conglomerati fra bitume e brecciolino. Inzomma, onestamente, il 2022 ci ha confermato che il mondo rimane fedele al Principio che la ragione è quella del più forte e che l’intelligenza è un poco artificiosa. 


Eppure, care amiche, le favole girano ancora per vie misteriose di bocca in bocca. Così, ascoltate questa che mi fu raccontata da una donna francese nata in Germania che l’aveva sentita vent’anni prima da un saggio olandese in America che, a sua volta, l’aveva appresa al semaforo della George Avenue a Nuovayork da un lavavetri turco che l’aveva ascoltata una domenica del secolo scorso alla Radio Armena che il mercoledì trasmetteva sulle onde medie le favole popolari raccolte sulle rive del Mar Caspio da un esploratore inglese, tale Mac Fish, nato in India nel 1822. Quest’ultimo, come riportato nella rubrica Strano ma Vero della Settimana Enigmatica, si perse in Kazakistan nel 1854 dopo aver barattato il suo quaderno di favole per la risolatura delle scarpe con un ciabattino portoghese cieco, il quale, a sua volta, non sapendo che farsene, spedì sto quaderno a Oporto a suo cugino, Vicenzo Sghimbesjo, che potrebbe essere mio trisavolo. Questo Vicenzo, totalmente analfabeta, usò le pagine di quel quaderno per avvolgerci tre bottiglie di porto che spedì nel Natale del 1857 a suo fratello Antonio in Pennsylvania che, dopo essersi scolato il vino, scoprì fra quei fogli gualciti il tesoro di questa favola che sto per raccontarvi e si mise a tradurla seduta stante in portoghese e dopo inutili sforzi, la fece pubblicare a Filadelfia nel 1899, rigorosamente in inglese. Inzomma, cari amiche, ecco la favola così come miracolosamente è arrivata alle mie orecchie.

C’erano una volta due amici un pastore e un contadino. Lavoravano l’uno di fronte all’altro, sui due fianchi d’una piccola valle. Ogni giorno a mezzogiorno facevano insieme colazione sotto l’albero di fico che cresceva sulla terra del contadino e a metà pomeriggio si ritrovavano sotto il melograno sul pascolo del pastore, sorseggiando un tè caldo. Un brutto giorno le pecore del pastore si ammalarono e morirono una dopo l’altra. Allora il contadino invitò il pastore a coltivare metà della sua terra, Siamo amici, gli disse, divideremo questa terra, vedrai, basterà per entrambi. Così fecero e ogni giorno lavoravano accanto, felici, e poi sotto il fico a mezzogiorno e sotto il melograno all’ora del tè. Un giorno il pastore lavorando la terra trovò sepolta una pentola piena di monete d’oro. La mostrò al contadino dicendogli, Guarda cosa ho trovato, prendila, la terra è tua e spetta a te. No, gli disse il contadino, L’hai trovata tu, spetta a te. E così rimasero a discutere senza decidere nulla. Ora, la figlia del contadino e il figlio del pastore si volevano bene e avevano deciso proprio in quei giorni di sposarsi. Diamola a loro, disse il contadino, così potranno ben provvedere al loro matrimonio! Questa è proprio una buona idea, disse il pastore. E così fecero. Organizzarono una bellissima festa per il matrimonio e per tre giorni e tre notti mangiarono e ballarono. All’alba del quarto giorno, però, i due sposi si presentarono al pastore e al contadino dicendo: Quello che ci serve l’abbiamo già, riprendetevi la pentola. Oh, no! dissero in coro il contadino e il pastore, E ora che ci facciamo con quest’oro? 

Così l’indomani andarono a trovare il vecchio saggio che viveva oltre la vallata nella sua tenda. Entrati, salutarono con ossequio il saggio ed esposero il loro problema. Il saggio sedeva per terra su un tappeto blu e intorno a lui stavano i suoi 4 allievi. Ascoltato il dilemma dei due amici, il vecchio chiese al primo allievo il suo parere. 

Per antica consuetudine, disse il primo,  tutto ciò che sta sotto terra appartiene al Sultano, la pentola d’oro dovrebbe essere quindi consegnata a lui. 

Non contento il saggio chiese al secondo allievo. 

Il secondo allora disse, Secondo la legge, poiché la pentola era nella proprietà del contadino, indiscutibilmente gli appartiene. 

Il saggio, non sembrò convinto e chiese al terzo. 

Il terzo, si guardò attorno, alzò gli occhi al cielo e  propose di sotterrare la pentola lì dove era stata trovata. 

Il saggio a questo punto chiese al quarto allievo, il più giovane. 

Il ragazzo disse, Potremmo portare la pentola al mercato per comprare tante sementi con cui piantare un giardino per sfamare la gente che non ha nulla. 

Sì, disse il saggio, Questa è una buona idea! 

Anche il contadino e il pastore furono contenti della soluzione, Ottima idea, dissero. 

Così il saggio incaricò il giovane di andare al mercato con l’oro per acquistare le sementi. L’allievo si mise subito in viaggio. Sulla strada incontrò un mercante che sul suo carro trasportava centinaia di gabbie dove erano chiusi uccelli di ogni foggia che cantavano disperati. 

Il giovane chiese al mercante, Perché non lasci liberi questi esseri infelici? 

Che dici? disse il mercante, ridendo, Dopo quello che m’è costato acchiapparli!  Lì venderò al mercato, son merce preziosa, babbeo! 

Io, ho una pentola d’oro posso comprarli, disse il giovane. 

Non farmi ridere, ragazzo! gli rispose il mercante e poi aggiunse, Mah, vediamo cos’hai? 

Il giovane gli mostrò la pentola e il mercante dopo aver visto quell’oro, esclamò, Sì, non è granché, ma potrebbe bastare… D’accordo, i pennuti son tuoi e ringrazia Allah che oggi sono ben disposto!

Benissimo, disse il giovane, apri allora le gabbie e lasciali liberi! 

Il mercante aprì le gabbie e gli uccelli volarono via. Il giovane osservò gli uccelli volare, fra mille stridii e gorgheggi e si sentì felice. Poco dopo fu buio e il giovane, rimasto solo sulla strada, si disse, Che ho fatto? E come farò adesso a comprare le sementi? E si addormentò angosciato sotto un cespuglio di more. Poco dopo sognò un grande uccello bianco che gli parlava, ma non capì del tutto le sue parole. Al suo risveglio, appena il sole colorò il mattino, da ogni angolo del cielo si videro giungere migliaia di uccelli, piccoli, dal becco ricurvo, dritto, lungo, corto, uccelli sottili dalle ali grandi come lenzuoli, bianchi, gialli, a stormi, a coppie, solitari, dalle piume blu elettrico e quelli con lunghe creste giallo ocra, insomma d’ogni tipo e colore. Scendevano dalle vette innevate facendo quasi ombra al sole, riempiendo l’ampia valle delle loro voci melodiose o gracchianti. E con stupore il giovane vide che ogni uccello portava nel becco un seme diverso. Li vide danzare nel cielo e poi lanciarsi giù e sfiorando la terra lasciare cadere quei semi fra le aride zolle. E sentì il fruscio delle loro radici che subito si stringevano alla terra e vide poco dopo venir fuori germogli e crescere spighe, fiori e alberi d’ogni specie. La voce si sparse col vento e le genti senza casa e molti vagabondi vi giunsero e curarono quel luogo facendone un rigoglioso giardino.  Quella terra sfamò loro, i loro figli ed ogni viandante sperduto fra le piste del Kazakistan. Anche il contadino e il pastore vennero a vedere quel giardino e si dissero, Si, è stata una buona idea!


Certo, cari amichi, la storia che qui vi ho narrato non so se sia di una qualche moderna utilità. Forse è di una qualche inutile utilità, non so.  Ad ogni buon conto, per l’anno nuovo, dinanzi a una difficile decisione, provate a chiedere l’opinione dei più giovani. 

Buon anno.

Felice Sghimbescio 

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