Christine Lagarde e il sonno del PIL




 
Cara Cristina, sono Felice che ti scrive e spero che nel Fondo Monetario starete tutti bene, in salute e contanti.
Cara Cristina, oggi voglio parlarti di come ogni giorno può essere buono per sbigottirsi. E tu che vivi al capo del Fondo nel mezzo delle banche, forse afferrerai questi miei penzieri, perché, come sai, le banche sono al mondo per bancarottare tutte le nostre certezze.
Inzomma, per farla breve e venire al succo, domenica mi sono svegliato alle quattro, perché la mia morosa ci aveva il turno di pulizia nel centro commerciale e due autobus da prendere per arrivarci. Che dopo una notte d’amore, scusa la confidenza sfacciata, svegliarsi alle quattro di domenica per schizzare a una fermata dell’autobus e stramazzare fra scopa e stracci è già una cosa che allucinerebbe anche Diabolik e Eva Kant. Comunque, mentre la Bibi ancora si avvoltolava nelle lenzuola, ho preso il caffè e sono sceso in pigiama per strada. Cara Cristina, non ci crederai, ma in quel momento non passava nemmeno una macchina sull’autostrada. Non si sentiva un solo motore in corsa. E per qualche minuto ho sentito quello che mai avevo sentito: il vento che passava sugli alberi lontani, passava sulla mia testa e intorno a me, così come Dio se lo deve essere immaginato quando lo ha fatto dal nulla o quasi. Inzomma, roba di effetti speciali, che ormai si vede solo al cinema o nella pubblicità. Allora ho penzato che per qualche secondo, in questa parte scognita del mondo, forse dormivano anche i cavi della luce, gli uomini, gli impiegati, le guardie, le scale mobili della stazione, le antenne sulle montagne, le radio, le tv, le banche, le poste e i bancomat, le casse e le cassaforti, dormivano le pompe di benzina, i benzinai e i distributori di coca dell’autogril, il fuoco delle discariche e i camionisti coi loro tir sui bordi delle strade, i cani abbandonati sull’asfalto, i commessi e gli operai, le valvole e i transistor infilati sotto la crosta della terra. Inzomma, forse, tutto quello che voi chiamate PIL s’era addormito. Anche se sono certo che da qualche altra parte, nascosto in un bunker atomico, un cervello elettronico calcolava da solo gli interessi che domani il mondo dovrà pagare per aver dormito un poco. Ma questa pausa, cara Cristina, sinceramente, non era poi così male: io non mi sono depresso e la Bibi ha fatto le sue ultime fantasie sotto le coperte, anche se mi sarebbe piaciuto che ascoltasse anche lei questo strano silenzio del PIL.
Allora ho penzato: cos’è questo PIL che dobbiamo sfamare ammazzandoci come cani perché bruci all’infinito come la fornace di una locomotiva che deve arrivare sulla luna? Cos’è questa cosa che dobbiamo mantenere col nostro lavoro e che dite ci migliorerà la vita ma che intanto non ci sfamerà mai?
Sono certo che puoi capire, anche perché da dove sei tu, sul pinnacolo del Fondo delle monete, immagino che non deve essere un bello spettacolo, come in cima a un pozzo di topi famelici. In fondo alla buca ci vedi quelli che si ammazzano per acchiappare quattro pìccioli, arrampicati l’uno sull’altro, fra milioni di rate da pagare, che mai potranno restituire, manco se lavorano fino a cent’anni. Mentre sul bordo, sul belvedere di questo inferno, ci stanno quelli che gli prestano i pìccioli, quelli che glieli riprestano per pagare i crediti dei primi, quelli che contano e ricontano gli interessi, quelli che li multano per i ritardi, quelli che misurano il PIL. E poi, un poco più giù, sul primo ballatoio che si affaccia sulla voragine, ci stanno quelli che scommettono su quanto sopravviveranno i mentecatti in fondo alla buca, quelli che ci fanno la filosofia, quelli che li mandano in guerra per distrarsi, quelli che li intervistano sulla qualità della buca, quelli che s’impietosiscono ma penzano che non ci sia niente da fare. Poi ci sono quelli un po’ più sensibili che gli vendono pure un’assicurazione sulla vita, anche se quella dei sorci famelici è una vita che non vale la pena, assicurata o no, e l’assicurazione non copre il suicidio. Inzomma, cara Cristina, lo sai anche tu che di questo passo il tuo Fondo si sfonda. Immagino la tua tristezza mentre rifletti che nessuno di quelli in fondo al Fondo uscirà mai alla luce, e che nessuno salderà il conto. 
Ora io, nel breve silenzio della notte, ho penzato a questo malanno del PIL e ti espongo qui sotto la mia franca opinione.
Cara Cristina, sinceramente, così per come è, noi di questo PIL non ce ne facciamo niente. Lo potete pure portare sotto zero. Non ce ne facciamo niente se per tenerlo in alto in fabbrica dobbiamo infilarci i pannoloni nelle mutande, perché anche pisciare è una perdita di tempo e la produttività dice che è il segreto del PIL. Non ci interessa se per farlo crescere dobbiamo indebitarci e comprare arnesi che butteremo dopo un mese, o impacchettare le arance senza buccia nella scatola di plastica, come ho visto nel fastfud sull’autostrada. Ci rinunciamo di cuore se dobbiamo riempirci di munnizza e poi pagare per bruciarla e avvelenarci. Se dobbiamo fottere il nostro prossimo per sopravvivere.
Cara Cristina, scusa se questa lettera ha preso una spiegazzatura un po’ triste, ma penzo che sarebbe bello se tu parlando alla prossima riunione del Fondo ci dici a tutti i pezzi grossi di monete, banche e politica che noi del condominio di via Casalofio vorremmo votare per un fermo biologico del PIL.

E sono Felice che ti saluta soddisfatto di questi penzieri mondiali anche se forse un poco ignoranti. Ciao Cristina.

Felice Sghimbescio

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